L’Epistolario #1 | Briciole

Caro Trelkowski,

sono passate diverse settimane dall’ultima volta che ci siamo scritti. Ricordo ancora il piacevole tepore del Sole sulla mia pelle mentre, comodo nel piccolo balcone di casa, stavo scrivendo le ultime parole della lettera che il mattino seguente avrei provveduto a spedirti.

Ma la mia memoria si ferma qui, si arresta davanti ad una sfuocata sensazione. Non un riferimento, non un elemento che possa aiutarmi ad individuare un punto nel tempo, più o meno preciso, nel quale collocare gli eventi. E così mi trovo spaesato, tormentato dal dubbio se la mia ultima missiva sia partita a luglio oppure ad agosto.

Sono forse io ad aver perduto parte delle mie capacità mnemoniche? A mio avviso, la risposta è no. Un no che non è certo figlio di un maldestro tentativo di autodifesa, quasi volessi nasconderti o nascondermi un problema che non ho la voglia o la forza di affrontare e magari risolvere.

Sai, credo proprio che la vera causa di questo annebbiamento del vissuto recente sia il costante senso di sospensione nel quale siamo da mesi costretti a vivere. Come se le innumerevoli paure ed i realistici timori per il nostro futuro, causa di un perenne senso di angoscia, rubassero spazio alla nostra già limitata memoria, obbligandoci ad omettere informazioni sul tempo ormai andato. Del resto, in un’epoca nella quale il senso di precarietà dell’uomo risulta più che mai accentuato, tutti i nostri sforzi devono essere protesi alla sopravvivenza, non certo alla contemplazione del passato. Sforzi fisici come psichici. Anche perché il passato fa male, ci proietta in momenti felici che sembrano oggi destinati a non tornare mai più. E se il passato non ci serve, o peggio ci danneggia, meglio sbarazzarsene.

Un buon modo per ovviare a questo piccolo oblio forzato è scrivere, lasciare una traccia di inchiostro sulla carta che potremo seguire quandanche perderemo i riferimenti, come Pollicino e le sue briciole. Ecco, le briciole. Sì, perché dietro di me non sono certo convinto di lasciare macigni o pepite d’oro, nozioni di importanza umana e filosofica seconde solo a quelle dei grandi pensatori idealisti dell’Ottocento. Le mie tracce d’inchiostro sono come briciole, piccoli frammenti di vita e vissuto quotidiani conditi dalle riflessioni di un uomo di tanti. Ma come un leone affamato si accontenta anche delle umili carni di una iena minuta, così nel tuo solitario ritiro siberiano dovresti trovare conforto anche nel racconto di una vita come tante, senza dubbio diversa dalla tua.

Ebbene, cominciamo a disseminarle queste briciole, ad allontanarci dal ristretto cerchio di passi dentro il quale siamo fino ad ora rimasti.

In una mia ormai remota lettera, senza dubbio arrivata sulla tua scrivania quando ancora il freddo dominava i solitamente miti paesaggi mediterranei, ti parlai di un morbo, di una malattia dal nulla palesatasi alla porta di casa dell’Umanità con la pretesa di metterne a soqquadro la dimora. Ti parlai anche di come, nel tentativo di non incrociare lo sguardo di questo inquilino indesiderato, l’intero genere umano sia dovuto correre ai ripari, sacrificando tanti di quei diritti con sangue e sudori acquisti nei secoli pur di arrestare o rallentare l’avanzata del morbo. Nell’ultima missiva ti scrissi che forse ce l’avevamo anche fatta, che la guerra tra virus ed umanità era stata vinta dai bipedi. Mi sbagliavo. Non avevamo vinto, lo credevamo e stavamo banchettando allegramente sulle presunte ceneri del nostro nemico, salvo poi accorgerci che quello ci stava tendendo una vile imboscata dalla quale difficilmente saremmo potuti uscire tutti interi.

E così oggi sembra ieri, un grande déjà-vu. Il fronte è ancora aperto, più sanguinoso che mai. Sono tornate le limitazioni, stanno pian piano rendendosi necessari nuovi ed ulteriori sacrifici, ora più pesanti di prima. Ma qualcosa è cambiato. In peggio.

Nell’aria si respira incoerenza. Un imperante senso di incoerenza che ha invaso i palazzi del Potere, specialmente quelli italiani, portando gli eletti deputati alla salvaguardia della nostra salute (di singoli e di comunità) a compiere scelte che sembrano prive di quella stessa assennatezza ed efficacia pratica che aveva caratterizzato la prima ondata di interventi.

Io non sono certo della natura di questa incoerenza, o meglio del sentimento del quale essa è figlia. Forse l’avidità, forse la paura o forse ancora il troppo timore dell’altrui giudizio. Non saprei dirti come questa incoerenza abbia preso il sopravvento delle menti di uomini sino ad ora degni del mio rispetto morale ed intellettuale però posso dirti che quando essa prende il controllo delle scelte umane il risultato non è mai di quelli positivi.

La gestione dell’emergenza è diventata un continuo barcamenarsi tra interessi altri rispetto alla salute, nel disperato tentativo di non apparire inconcludenti agli occhi delle masse. Anche a costo di prendere decisioni contrastanti, incoerenti, sperando che la memoria di chi le subisce sia abbastanza breve o abbastanza disturbata dalla paura per poterle accettare di buon grado.

Ultima di questa triste serie di scelte discutibili, quella che ha visto serrare gli ingressi delle palestre di tutto il Paese condannando alla disperazione migliaia di famiglie private della loro fonte di reddito nel nome del bene comune. Ma quale bene comune? Quale bene comune può giustificare la chiusura di attività commerciali perché accusate di essere ricettacoli del morbo se poi non vengono presi provvedimenti atti a mettere in sicurezza i veri ricettacoli? Come si può accettare di buon grado, a patto di essere dotati di ragione, che un centro sportivo venga chiuso ma che le medesime attività ginniche continuino ad essere svolte come niente fosse in ambienti pubblici, come le palestre degli istituti scolastici di tutta Italia? Palestre scolastiche nelle quali non vengono rispettate nemmeno la metà delle norme imposte ed ossequiosamente seguite dagli imprenditori? Oppure come si può chiedere il più grande sacrificio che un imprenditore può fare, ovvero chiudere la sua attività, quando è sotto gli occhi di tutti come a bordo dei mezzi pubblici la situazione sia peggiore che nelle sale di un bar o sul tatami di una palestra.

Come è possibile che chi ha il compito di decidere non si accorga del vortice di incoerenza nel quale sta lentamente precipitando? Perché fa finta di niente?
Tu ce l’hai una risposta a questa domanda? Io no. Non ancora, non ora e non mai probabilmente.

Le mie briciole le ho disperse, una traccia della mia assurda quotidianità l’ho lasciata. E se non servirà a cambiare le cose, prendere coscienza di come esse vadano può senza dubbio aiutare a scaricare la pressione che l’ingiustizia esercita su di noi.

È abbastanza? Forse no. Mi basta? Forse sì. È giusto così? Ovviamente no.

 

Pio Guerra

Scrivo su Notiziæ dal 2020 e su Editoriale sin dalla sua fondazione. Sono appassionato di storia, motori e giornalismo. Collaboro anche con alcune testate locali.

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