Traditio Lampadis

Caro Gigi,

alla fine ci hai lasciato. Per sempre. Stavolta non ci sarà nessun secondo atto, nessuna replica della sera. Sei scomparso dietro la pesante tenda in velluto del sipario per l’ultima volta, nella tua definitiva e trionfale uscita di scena, con gli applausi che si levavano copiosi dalla platea commossa.

Senza dubbio avremmo tutti voluto dirti addio in un modo diverso, non certo distanziati dietro le transenne o davanti alla tv di casa. Saremmo tutti voluti essere in piazza, uno accanto all’altro, per condividere il dolore ma anche per ricordare tutti assieme quanto ci hai fatto ridere, emozionare, piangere.

Purtroppo non c’è mandrakata che tenga: questo virus infame ci ha costretti a riscrivere tutti i nostri paradigmi e nemmeno per un grande come te è stato disposto a fare sconti.

Te ne sei andato quando ancora faticavamo a trattenere le lacrime per la scomparsa di Sean Connery e mentre ancora il Paese si stringeva intorno a te, un altro lutto ha indebolito i nostri animi già più fragili che mai. Anche Stefano D’Orazio ci ha lasciato. Tanti lo ricordano come il batterista dei Pooh, io preferisco ricordarlo come la penna dietro alcuni dei brani che hanno fatto ballare ed amare intere generazioni. E la speranza di tutti è che continuino a farlo anche negli anni avvenire.

Del resto questo è stato un annus horribilis per l’arte e per la cultura, caratterizzato dalla dipartita di Luis Sepulveda, Philippe Daverio, Ennio Morricone. Tanto che una delle frasi che più spesso si odono per le strade è: questo 2020 ci sta portando via tutti. Dove quel tutti racchiude i pilastri dell’arte, della scienza, della storia italiana ma anche mondiale.

Come non essere d’accordo, Gigi. Non c’è giorno che leggendo un giornale o guardando un TG la pagina dei requiem sia colma di nomi, di grandi nomi, indimenticabili.

Ma il dolore non deve impedirci di ragionare, di porci delle domande. Perché sono tante le domande che sorgono. In primis, perché ci sentiamo smarriti? Perché ci sembra di essere più poveri di scomparsa in scomparsa, come se il “contenitore” delle maestranze si stesse progressivamente svuotando e fosse prossimo al rimanere vuoto?

Da inguaribile appassionato di storia, la risposta sono andato a cercarla nel passato. O meglio, indietro nel tempo ho cercato la metafora migliore per raccontare la mia risposta.

E, caro Gigi, l’ho trovata proprio a Roma, la Roma di Cesare prima e Ottaviano poi, distante secoli da quella che tu eri solito raccontare sul palco ma, in fondo, neanche troppo diversa.

Hai mai sentito parlare della traditio lampadis? La traduzione letterale è passaggio della lampadadel lume. Altro non era che un rito, una tradizione, in uso presso i più importanti circoli letterari della Roma repubblicana (ma anche di quella imperiale), secondo la quale alla morte del più illustre rappresentante dell’arte poetica, questi passava simbolicamente la torcia della poesia – che più che uno scettro rappresenta il fuoco che arde e tiene in vita l’arte stessa – ad un poeta più giovane unanimemente considerato il più capace dai suoi contemporanei.

Ovviamente si tratta di un passaggio simbolico che però aveva una grande importanza per i romani. Basti pensare che Virgilio, secondo la tradizione, ereditò la fiaccola da Lucrezio, altro illustre nome della poesia romana.

Finisce un’era, ne comincia un’altra; questa è la traduzione più semplice e moderna che possiamo fare della traditio lampadis.

Cosa c’entra questo con l’affermazione di prima e, soprattutto, con le domande che essa ci costringe a porci? Estendiamo, forse anche impropriamente, il concetto a tutte le arti, anche a quelle più recenti come la settima, il cinema, per capirlo.

Secondo me la causa del senso di smarrimento di cui prima sta nel fatto che, ad oggi, non siamo nelle condizioni di completare il passaggio della fiaccola. Il nostro sistema culturale ci impedisce di trovare un degno erede di quei grandi nomi dell’arte che per decenni hanno sostenuto come pilastri il peso dell’arte stessa.

Dimmi Gigi, chi pensi possa raccogliere il tuo testimone? Chi potrà raccogliere quello di Sean Connery, di Ennio Morricone o di Stefano D’Orazio? O meglio, quanti sono quelli in grado di farlo? Pochi? Nessuno? Propendo per la seconda.

E non è un discorso di quelli “ai miei tempi era tutto più bello”. Non avrei modo di farlo perché sono questi i miei tempi, il mio tempo è il presente. Io sono troppo giovane perché un simile discorso possa assumere un carattere meramente nostalgico piuttosto che constatativo della realtà dei fatti.

La colpa è, come accennato, del nostro sistema culturale, dei paradigmi che esso ha assunto come propri e che hanno permesso di trasformare il successo in qualcosa di fine a se stesso, non più una conseguenza delle capacità e della bravura dell’artista. In altre parole, ormai il successo e la notorietà non si conquistano più eccellendo in ciò che si fa ma è l’eccellenza che si conquista attraverso il successo.

Nascono così i cosiddetti fenomeni trash, che lo sono più o meno manifestamente, e che invadono i palcoscenici, le copertine e le radio. Di gente di successo ce n’è tanta, ma di gente veramente brava e capace in ciò che fa ce n’è poca. La maggior parte dei fenomeni sono, appunto, solo fenomeni idolatrati e portati alla ribalta grazie al loro aspetto, alla loro ricchezza, alla loro stravaganza, che troppo spesso sono inversamente proporzionali al loro talento.

Ed in una condizione simile, in un mondo dominato da questo sistema, come possiamo sperare di trovare qualcuno degno di ricevere la torcia dai grandi del passato? Gente con le spalle grosse, artisti degni di questo nome, non fenomeni da baraccone. Come possiamo trovare qualcuno in grado di sostenere il peso dell’arte come facevano quei pilastri che pian piano stanno venendo meno?

La nostra cultura è una cultura vecchia. È una cultura che non ha saputo rinnovarsi e che invece che mantenere alti i propri standard ha preferito mercificarsi lasciando ricadere sul lustro del passato l’onere di mantenere alta la propria dignità. C’è un problema però: gli uomini non sono eterni. Lo stiamo vedendo proprio adesso. Anche gli artisti muoiono e se non sappiamo formarne di nuovi il rischio è che con l’ultima generazione di maestri muoiano anche le arti.

Ecco spiegato il senso di progressiva vacuità: il gran calderone della cultura si svuota ad una velocità infinitamente maggiore rispetto a quella con cui si riempie.

Siamo ancora in tempo per cambiare rotta? Di poco ma sì, siamo in tempo. Però dobbiamo sbrigarci. Dobbiamo cambiare un po’ di cose prima che sia troppo tardi, che vengano meno tutti i pilastri e la cultura ci crolli addosso.

Ce la faremo? Io ho i miei dubbi. Fortunatamente il progresso tecnologico ci ha permesso di eternizzare i momenti clou del passato delle arti e se non possiamo godere di nuovo materiale, almeno possiamo consolarci con ciò che è stato.

 

 

Pio Guerra

Scrivo su Notiziæ dal 2020 e su Editoriale sin dalla sua fondazione. Sono appassionato di storia, motori e giornalismo. Collaboro anche con alcune testate locali.

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