Oggi non parliamo di Covid-19. Mi provoca una strana sensazione scriverlo, devo essere onesto. Sì, perché da 10 mesi a questa parte non si parla (ovviamente) d’altro. Eppure, per quanto rallentato, il Mondo non si è mai fermato e le notizie non sono mai mancate. Semplicemente eravamo tutti troppo presi da questo virus bastardo da non riuscire a rendercene conto.
E dopo questa bella preterizione, che se Umberto Eco fosse ancora vivo certamente mi contesterebbe, introduciamo il caso del giorno. Perché più che di una notizia si tratta di un vero e proprio caso mediatico. Dove l’espressione caso mediatico assume un duplice significato: da una parte quella di topic ampiamente discusso dai media, dall’altra quella di questione che coinvolge direttamente i media stessi.
Prima di rischiare di far confusione però, ricostruiamo i fatti.
Giovedì 26 novembre scorso (che per me che scrivo è soltanto “ieri”), grossomodo verso l’ora di pranzo, si compie quello che potremmo chiamare il casus belli della vicenda. Sulla pagina Facebook dell’onorevole Laura Boldrini appare un post nel quale l’ex presidentessa della Camera dei Deputati accusa Mattia Feltri, già direttore della Stampa, ora approdato alla testa dell’Huffington Post, di non aver deliberatamente pubblicato un suo pezzo proposto all’omonimo giornale on-line. Ma più che per il rifiuto, lo sgomento è per la motivazione addotta come giustificazione.
Pare infatti (questa è la prima di molte volte che mi sentirete usare il condizionale, poi capirete perché) che il pezzo della dottoressa Boldrini – da pubblicarsi in occasione del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne – ripercorresse i più recenti fatti di nera nei quali a farne le spese sono state proprio giovani donne, vigliaccamente violentate o ignobilmente tradite dal loro partener. Tra di loro anche la 18enne Martina, finita sulle prime pagine dei quotidiani nazionali per aver denunciato un presunto stupro da parte di un noto imprenditore milanese.
E sempre tra le pagine dei giornali, l’onorevole aveva trovato il gancio giusto per corroborare la tesi di fondo dell’articolo, riassumibile nella massima:
«C’è sempre un sottinteso nella narrazione, anzi spesso una palese e volontaria ricostruzione di particolari che finiscono con lo spostare il peso della colpa dalla vittima all’aggressore.»
Questo gancio era l’assai contestato editoriale di Vittorio Feltri, apparso sulle colonne di Libero il 24 novembre, proprio alla vigilia della giornata scelta internazionalmente per ricordare le vittime di violenza, dall’eloquente titolo di «Ingenua la ragazza stuprata da Genovese». Che, per inciso, era proprio la Martina di cui parlavamo poco sopra e del cui (presunto) aguzzino abbiamo volontariamente scelto di omettere il nome, sin quando possibile.
In questa sede non ci addentreremo nel commento di quel pezzo, in questa come in nessun’altra. Infatti data la delicatezza della questione, abbiamo deciso di adottare una linea editoriale per la quale saranno i nostri lettori a scegliere se leggere l’articolo e, eventualmente, cosa pensarne, senza che da parte nostra vi sia qualsiasi tipo di suggerimento o instradamento. Sia per non pubblicizzare ulteriormente l’oggetto delle polemiche, sia per rispetto della giovane Martina che, a nostro avviso, in questo momento non merita che un po’ di pace e di tempo per dimenticare.
Tornando sul sentiero che abbiamo già cominciato a tracciare, per proseguire la narrazione è necessario introdurre un nuovo (forse per alcuni perfino sconvolgente) elemento. Come nelle migliori serie drama infatti, l’apex si raggiunge quando entrano in gioco i rapporti familiari tra i protagonisti, specie se particolarmente tesi. In questo caso, il triangolo Mattia Feltri-Laura Boldrini-Vittorio Feltri si arricchisce di un nuovo dettaglio: la parentela tra Vittorio e Mattia, l’uno “giornalista padre” e l’altro “giornalista figlio”.
Stando a quanto dichiarato dall’onorevole, ci sarebbe proprio questa parentela alla base del rifiuto apposto dal direttore dell’HuffPost alla pubblicazione del pezzo. Nella fattispecie, sembra che il Feltri Jr. abbia poco gradito il commento negativo espresso nei confronti dell’editoriale del padre e che al rifiuto di ometterlo, questi si sia rifiutato di mandare online il testo.
Cosa che, in quanto direttore, ha la piena facoltà di fare, bisogna dirlo. Anche se è necessario sottolineare come non tutto ciò che è lecito è anche giusto.
Passano meno di 24 ore e sulla home page dell’Huffington Post appare una nota firmata da Mattia Feltri in persona. Una risposta, concisa ma severa, che ha solo avuto l’effetto di gettare ulteriore benzina sul fuoco già incontrollabile, acuendo l’impressione di molti che sia sia trattato di un vero e proprio abuso della posizione ricoperta dal giornalista. Tanto che sulla questione si è pronunciato pure Carlo Verna, direttore dell’Ordine Nazionale Dei Giornalisti, spendendo parole di sincero sconcerto per l’accaduto.
Quasi in contemporanea, sulla pagina Facebook di Laura Boldrini e sulle colonne dell’edizione online de “Il Manifesto”, appare l’articolo che di questo scontro è stato il casus belli. Ed effettivamente il riferimento all’editoriale del fondatore di Libero è presente:
Cosa dire del resto dell’intervento di Feltri su Libero, in cui si attribuiva la responsabilità dello stupro non all’imprenditore Genovese ma alla ragazza diciottenne vittima?
Un riferimento, niente più. Né sul piano diretto né sul piano indiretto sembrano esserci commenti particolarmente sgradevoli. Risulta difficile, allora, capire ed eventualmente giustificare le ragioni che hanno portato Mattia Feltri ad apporre il proprio veto alla pubblicazione. Sia dal punto di vista professionale (in quanto l’articolo della Boldrini non viola nessuno dei punto del Testo Unico dei Doveri dei Giornalisti) sia da quello umano, perché non si ravvisano parole che possano spingere un figlio ad un tale slancio protettivo verso il proprio padre.
Veniamo ai commenti ora.
Si sono spese migliaia di parole nei giorni precedenti alla pubblicazione di questo articolo sull’affare di famiglia (come l’hanno soprannominato alcuni giornali on-line) ma nessuna è riuscita a centrare nel segno ciò che davvero si dovrebbe fare.
Tra “feltristi” e “boldrinisti” nessuno si è posto due domande fondamentali, la risposta alle quali è necessaria per dare un giudizio definitivo sulla questione:
- siamo certi che l’articolo poi pubblicato dalla Boldrini e dal Manifesto sia lo stesso che è stato inviato all’Huffington Post e che non sia piuttosto una versione “edulcorata” di esso?
- qual è il vero rapporto che intercorre tra “Feltri padre” e “Feltri figlio”? Quanto è teso?
Una risposta certa alla prima domanda ci permetterebbe di stabilire se il direttore dell’Huff abbia agito o meno con l’obiettivo di tutelare il giornale da una querela per diffamazione o anche solo per difendere il padre da accuse pesanti (il che sarebbe “sbagliato” professionalmente ma non umanamente). Rispondendo alla seconda domanda potremmo capire quanto è “difficile” il rapporto tra i due giornalisti e se il rifiuto del figlio è stato semplicemente motivato dalla volontà di non vedere sulle pagine del proprio giornale il nome del padre.
Ricordiamoci che l’Huffington a direzione Mattia Feltri non ha mai pubblicato articoli sulle sparate di Vittorio, al contrario della maggior parte delle altre testate. Probabilmente c’è qualcosa di grosso tra padre e figlio, qualcosa che giustamente hanno sempre cercato di tenere lontano dalla ribalta fingendo di ignorarsi sino a quando è possibile.
A questo punto la domanda è: è giusto che le questioni personali entrino nelle redazioni? La risposta secca è no. In ogni caso. Come non dovrebbero entrare nelle redazioni questioni politiche. Purtroppo succede. Ma ciò pregiudica la qualità del servizio che si sta offrendo, rischiando di fornire al lettore una visione parziale del Mondo. E non aiutano le parole di Mattia Feltri, che in più di un pezzo ha sottolineato:
[…] la redazione e la direzione si riservano di non pubblicare i blog senza dare spiegazione e senza nemmeno avvertire (un paio di settimane fa ho sospeso il blog di Carlo Rienzi del Codacons per una ragione che dettaglierei così: non mi piace).
Che giornalismo è quello del “non mi piace”? E poi, cosa non piace, il modo in cui si scrive o ciò che si dice? Nel primo caso, ben venga la sospensione; nel secondo non è sbagliato parlare di censura.
Un semplice “ho sbagliato” avrebbe avuto molto più senso. Da giornalista e soprattutto da uomo. Sia per il padre, sia per il figlio.
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