“Questa Italia qua, se lo vuole sa, che ce la farà”

Negli ultimi mesi se ne sono sentite di tutti i colori: critiche all’operato del Governo, a quello delle Regioni e, ovviamente, pure a quello dell’ormai famigerato Comitato Tecnico Scientifico. Critiche legittime, arrivate da tutti gli schieramenti politici (eccezion fatta per gli irriducibili) e che in buona parte mi sento di condividere.

D’altronde sarebbe indice di una sfacciata ipocrisia dirsi soddisfatti dei provvedimenti presi dalle istituzioni in questo primo anno di pandemia. Perché non è andato tutto bene, anzi. Ci sono state tante – forse pure troppe – carenze e leggerezze che sono poi costate la vita a migliaia di nostri concittadini. Il liberi tutti di questa estate o l’impreparazione con cui abbiamo dovuto affrontare la “seconda ondata” ne sono testimoni.

Ciò non significa, però, che coloro che in questi mesi hanno sparato a zero sulla governance siano esenti da responsabilità. Le opposizioni politiche in primis, seguite a ruota dalla maggior parte dei media e da una grande porzione della cittadinanza. Tutti quanti colpevoli di scarsa o assente propositività, intenti a giudicare l’altrui operato senza apportare elementi costruttivi alla discussione.

Costruttivi, attenzione a questo termine. Per la Treccani si definisce “costruttivo” «ciò che porta un contributo efficace e positivo». Il che evidentemente contrasta con la natura delle uniche proposte avanzate da taluni ambienti della destra nazional-populista e della sinistra “estraniata dal mondo”.

Anche chi scrive si è macchiato di questa colpa. Nella prima puntata de “L’Epistolario” il sottoscritto si era speso in una lunga critica all’operato del Governo, che continua a condividere pur col rammarico di non aver aggiunto ai richiami qualche proposta.

Il grande problema di questo Paese sta proprio in simili atteggiamenti, perché è bene che vi sia una discussione relativa alla gestione della cosa pubblica ma sarebbe altrettanto bene che tutti quelli che si “arrogano” il diritto di parteciparvi apportassero poi un contributo costruttivo che, al termine dell’agone, possa garantire un miglioramento della condizione iniziale.

Ed è quello che tenterò di fare oggi, partendo dalla disfunzione che (con non poca arroganza, oserei dire) mi propongo di risolvere.

Si tratta di un vulnus che “azzoppa” l’Italia da anni e che la pandemia ha soltanto acuito: la vecchiezza del modello commerciale cui imprenditori (soprattutto) e consumatori (ultimamente di meno) sono abituati. In altri termini potremmo parlare di arretratezza scarsa propensione alla digitalizzazione del mercato, ancora troppo legato alla fisicità in un mondo dove l’e-commerce la fa ormai da padrone.

Cosa c’entra questo con la pandemia è presto detto: subito dopo il costo in termini di vite umane del coronavirus viene quello commerciale. Lavoratori senza più un posto e imprenditori sul lastrico sono l’altra faccia di una crisi che oltre che sanitaria è pure economica.

Per lenire gli effetti, o più volgarmente “tappare i buchi” creati da Covid-19 nella nostra economia, il Governo ha varato e continua a varare un Decreto Ristori dopo l’altro, fornendo niente più che sussistenza agli imprenditori ed ai lavoratori ormai stremati e che con quel danaro potranno solo rimandare di un paio di mesi la loro fine umana e professionale.

Decreti ampiamente (a ragione) contestati da politica e cittadinanza, entrambe però arroccate sulle loro posizioni che mettono il Dio Denaro al primo posto della scala dei valori e che quindi chiedono riaperture su riaperture.

Sbagliando, perché un modo per coniugare le necessità economiche di un Paese con quelle sanitarie esiste: si chiama e-commerce.

Lo stesso e-commerce che il mercato ha ampiamente dimostrato essere una soluzione vincente “in tempi di pace”, dandone ulteriore conferma in “tempi di guerra”. Lo stesso e-commerce che milioni di imprenditori italiani, al contrario dei loro omologhi europei e internazionali, continuano ad ignorare o perfino a bollare come “inutile” e “improduttivo”. A volte per mancanza di familiarità con la tecnologia, altre ancora per scarse capacità imprenditoriali.

I presupposti perché fosse evidente come questo nuovo modo di “fare mercato” rappresentasse il futuro del commercio c’erano da tempo, ben prima dell’arrivo del Covid-19. Amazon ne era la testimonianza lampante ma gli imprenditori italiani hanno preferito intestardirsi sulla mal compresa questione della “tassazione dei giganti del web” piuttosto che imparare dal nemico ed adeguarsi ad un’economia che cambia.

Per qualche tempo le condizioni hanno fatto sì che entrambi i modelli economici riuscissero, bene o male, a convivere in maniera pacifica. Eppure tutti erano coscienti del fatto che, presto o tardi, il giorno dell’egemonia dello shopping digitale sarebbe arrivato. Sotto sotto anche quelli che lo snobbavamo ancora.

La pandemia ha soltanto accelerato questo processo. E gli effetti si sono visti: da una parte ora ci sono gli “imprenditori tradizionali”, che vedono i loro guadagni dipendere dall’ultimo DPCM; dall’altra ci sono gli “imprenditori digitali” che pur vedendo i loro shop fisici chiusi stanno continuando a fare affari grazie alla rete.

Se prima fare acquisti da casa era un lusso, ora è una necessità. Se prima avere un doppio canale di vendita sembrava uno “sbattimento” di troppo, ora fa la differenza tra la vita e la morte di un’azienda.

Tanti, seppur tardi, lo hanno capito e sono corsi ai ripari reinventandosi, non dandosi per vinti e cercando nuovi modi di fare affari anche ai tempi del coronavirus. Hanno vinto. Qualcuno, invece che rimboccarsi le maniche, ha preferito sbraitare contro il Governo perché gli aiuti non arrivano. Ha perso.

È qui che entra in gioco la frase di Adriano Celentano che fa da titolo a questo articolo: gli italiani lo sanno bene che una soluzione a questo momento di crisi c’è, però non vogliono vederla. Per tanti motivi, uno su tutti l’ottusità.

Dal canto suo, nemmeno il Governo sembra aver compreso le potenzialità dell’e-commerce: vi sfido a trovare un’intervista nella quale Giuseppe Conte o altri grandi volti della politica nostrana si rivolgono agli imprenditori dicendo loro che un modo per sfuggire alla morsa del virus c’è ed è il digitale.

Vi sfido a trovare un’intervista o una dichiarazione nella quale un funzionario di Governo ricorda agli imprenditori come non solo l’investimento in un negozio virtuale sia proficuo ma sia anche sostenuto dallo Stato attraverso fior fiore di incentivi, anche Europei. Soldi stagnanti, che nessuno utilizza perché non se ne comprendono le potenzialità.

Mi chiedo: invece che spendere miliardi in ristori inutili, sufficienti a malapena a prolungare di qualche settimana una inesorabile agonia, perché i nostri leader non hanno pensato ad ulteriori investimenti nelle infrastrutture digitali e negli incentivi alla realizzazione di siti web e e-shop da parte delle aziende?

Perché non si è pensato a rimborsi e bonus cash tali da rendere estremamente conveniente l’ingresso delle varie imprese nel mercato digitale? Sarebbero stati soldi ben spesi. Sotto ogni punto di vista.

Non solo si sarebbero risparmiati miliardi in cassaintegrazione per i dipendenti costretti a casa (che invece potrebbero lavorare alle spedizioni) ed in sussidi per le aziende chiuse ma lo Stato avrebbe anche accelerato il processo di “tracciamento del denaro”. Online si paga obbligatoriamente con carta e non servono assurde lotterie o facilmente aggirabili norme coercitive per dissuadere i furbetti.

Invece no, abbiamo speso, stiamo spendendo e probabilmente spenderemo miliardi e miliardi in sussidi inutili. E quando questa pandemia sarà finalmente finita, le saracinesche di molti si rialzeranno ed avremo, ancora, un’economia vecchia ed arretrata. Che se non siamo riusciti a cambiare durante una crisi globale, difficilmente avremo la possibilità di cambiare dopo il ritorno alla normalità.

Una vera e propria condanna. Non mi si venga poi a dire che “Amazon  ci ruba il lavoro” perché sono gli italiani a non volerlo, a lasciarsi sfuggire opportunità che altri invece sanno cogliere. Il mercato funziona così: chi non si adegua affonda. Triste ma vero.

La colpa di tutto ciò non è solo di imprenditori e cittadini però. La responsabilità è anche dei Governi che in tutti questi anni non hanno saputo correggere il difetto più grande della mentalità italiana: quello che vede lo Stato come il padre della parabola del figliol prodigo, pronto a mettere toppe ad ogni errore del pargolo.

Le toppe sono i sussidi, i soldi dati senza un piano di “riassestamento” e che quando finiscono, dopo 12 o 24 mesi, non hanno cambiato nulla in chi ne ha beneficiato. Puro accanimento terapeutico in termini finanziari: si sta tenendo in vita un’azienda che, allo stato attuale, non ha possibilità di riprendersi. Tanto vale farla fallire subito. I soldi spesi per supportarla nella sua agonia saranno spesi inutilmente e non torneranno mai indietro, visto che l’azienda chiuderà e non potrà più fatturare, pagare le tasse, i contributi ai dipendenti. Anzi, si genereranno nuovi poveri da mantenere. Un costo nel costo. Un loop infinito succhia-sangue.

Che lo Stato sia padre ma che sia almeno un padre severo. Un padre che permette al figlio di inseguire i  suoi sogni sulle proprie gambe e se questo cade, sarà compito solamente suo rialzarsi. Che si investano i soldi! Si investano in corsi di aggiornamento per imprenditori e dipendenti, in finanziamenti per nuove infrastrutture. Che si investano producendo crescita, in tutti i sensi. Coltivare, educare e non curare con farmaci palliativi. Coltivare aziende che un giorno ripagheranno lo Stato dell’investimento iniziale pagando tasse e generando posti lavoro.

Si può fare in tanti modi, basta volerlo. Basta entrare nell’ordine di pensiero che tutto sta cambiando e che se non saremo noi a correre dietro al cambiamento, non sarà certo lui ad aspettarci o, peggio,  a venirci incontro.

Non siamo mica nei Marines: in economia nessuno aspetta chi cade e rimane indietro.

 

L’ultima puntata de L’Epistolario la trovate qui
L’ultima puntata de “C’era una volta” di Alessandro C. la trovate qui
La prima puntata di “Parliamoci chiaro” di Cosimo la trovate qui

 

 

 

Pio Guerra

Scrivo su Notiziæ dal 2020 e su Editoriale sin dalla sua fondazione. Sono appassionato di storia, motori e giornalismo. Collaboro anche con alcune testate locali.

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