Si restringono ora dopo ora le possibilità di trovare un accordo commerciale tra Ue e Regno Unito. L’allarme del governatore della Banca d’Inghilterra Andrew Bailey: «le conseguenze della Brexit saranno, sul lungo periodo, più pesanti degli effetti del Covid.»
Questo inverno gli inglesi lo ricorderanno per molte generazioni. Londra è alle prese con la più grave recessione da trecento anni a questa parte nella storia del Regno e, come se non bastasse, ad essa si aggiunge lo spettro di una Brexit senza accordo con l’Unione Europea. Perché se è vero che proseguono serrate le trattative per raggiungere un accordo, è lo stesso primo ministro britannico Boris Johnson ad ammettere che è «estremamente alta» la possibilità di un ‘no deal’, un’ipotesi che giorno dopo giorno prende le sembianze dell’unico esito possibile di questo dramma. È uno scenario di cui ormai parlano anche i vertici dell’Unione, Von der Leyen in primis.
Cosa accadrebbe in caso di no deal?
I colloqui in corso tra Ue e Regno Unito hanno come scopo quello di stipulare un nuovo patto commerciale che sostituisca il mercato interno dell’Unione. Qualora non si raggiunga un accordo entro il 31 dicembre, il Paese anglosassone sarà costretto ad intrattenere rapporti commerciali con l’ex-coniuge secondo le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, in inglese). Il che significa, tra le altre cose, pagare alte tariffe doganali per introdurre le proprie merci nel Vecchio continente.
I prodotti agricoli potrebbero subire dazi del 2% sul loro valore, le automobili del 10%, i prodotti caseari fino al 35%. Per non parlare del fatto che, in assenza di un documento che regolamenti gli standard minimi di qualità (ad esempio per il cibo), molte merci sarebbero fermate alla frontiera causando fastidiosi ritardi. Gli stessi autotrasportatori potrebbero dover sostare in lunghe code attraversando la Manica per via dei maggiori controlli operati alla dogana.
Come sempre, il prezzo più alto lo pagherebbero i ceti più deboli, con un ovvio rincaro dei beni importati dal continente stimato intorno all’1,5%. Dall’inizio della pandemia sono già 750mila i posti di lavoro persi ma, conferma il ministro del tesoro, Rishi Sunak, sono destinati ad aumentare: «l’economia sta vivendo un momento estremamente grave»: il numero di disoccupati «è a livelli record per i tempi di pace.»
A fronte di una previsione di crescita del -11% nel 2020, è stato stimato che l’uscita dall’Unione Europea porterà ad una crescita inferiore di quattro punti rispetto a quanto accadrebbe in caso di permanenza; un ‘no deal’ porterebbe invece a 6.1 punti la gravosa differenza. Anche in caso di accordo, quindi, l’economia britannica troverebbe sulla sua strada un periodo di difficoltà.
La mancata intesa sarebbe svantaggiosa non soltanto per il Regno Unito (il valore delle relazioni commerciali tra l’isola e l’Unione è enorme: £670 miliardi, circa 735 miliardi di euro), ma anche per la stessa Europa. Alcuni settori, come quello automobilistico, prevedono intensi rapporti commerciali con altri Paesi; le auto sono per così dire ‘multinazionali’ nelle loro componenti: senza un accordo che azzeri, o diminuisca in parte, le tariffe doganali, il prezzo per la costruzione di una vettura aumenterebbe significativamente. Fermo restando che l’industria dell’automobile, anche qualora Londra e Bruxelles raggiungano un’intesa, è destinata a perdere 15 miliardi di euro.
C’è comunque da dire che l’Ue ha disposto un piano di emergenza per evitare che il 1 gennaio si interrompano i collegamenti aerei e stradali. Ma, trattandosi di una soluzione di ‘riserva’, tale scenario porta comunque con sé (ancora) evitabili svantaggi.
Quali sono i punti su cui non si trova un accordo?
Se bene o male tutti gli altri punti siano ormai chiariti, rimangono tre grosse questioni fondamentali per strappare un accordo al Regno Unito.
Il primo riguarda il cosiddetto level playing field, una serie di standard in merito al lavoro, al rispetto dell’ambiente e agli aiuti di Stato. Bruxelles vorrebbe assicurarsi che questi standard non vengano abbassati in modo sleale, allo scopo di attrarre investimenti esteri. Questo sarebbe un danno per le aziende europee che verrebbero penalizzate dal non avere modo di combattere ad armi pari.
Il secondo punto ostico è la pesca. Non si riesce ad accordarsi sul se, su quanti e quali pescatori europei potranno accedere alle acque britanniche per la pesca. I Paesi che più ne beneficiano, come la Francia, stanno facendo pressione sui negoziatori europei per non cedere nulla.
Il terzo è la risoluzione delle dispute che potrebbero sorgere in futuro tra Regno Unito ed Unione Europea. Siccome Londra rifiuta la giurisdizione delle esistenti istituzioni europee, è necessaria la creazione di un qualche tipo di meccanismo da attivare in caso qualcuno violi uno dei punti dell’accordo. Tale meccanismo cercherebbe una conciliazione e svolgerebbe sostanzialmente il lavoro di arbitro mediatore. Le divergenze riguardano i poteri e le circostanze in cui tale meccanismo verrebbe attivato.
E ora?
La paura è che entrambi i negoziatori attendano fino all’ultimo che l’altra parte ceda per prima, senza che però effettivamente nessuno faccia un passo indietro. Siccome dopo l’ufficializzazione dell’accordo sono necessari ulteriori passaggi, rischierebbero di mancare i tempi tecnici per ratificare l’accordo. I legali di entrambe le parti dovrebbero controllare riga per riga il testo del trattato; toccherà poi al Parlamento europeo chiedere alcuni giorni per discutere l’intesa, così come farà ciascun Parlamento dei ventisette Paesi membri. Certo è che, se è vero che un accordo potrebbe essere sbilanciato a favore di una delle due parti, la mancanza di un’intesa in tempi brevi danneggerà sia il Regno sia l’Unione. E i giorni utili per salvare l’accordo in corner si contano ormai sulle dita di una mano.